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Colette: tra sogni & realtà

di Nicoletta Sipos


Se c’è una donna che merita l’appellativo di inaffondabile è proprio lei, Sidonie-Gabrielle Colette, diventata celebre con il solo cognome ereditato dal padre: Colette.


Più la buttavano giù, più lei tornava su senza lasciarsi scoraggiare da delusioni sentimentali, sconfitte tremende, offese atroci, affari sciagurati.


Non a caso di sé diceva, con assoluta semplicità: “Rinascere non è mai stati al di sopra delle mie forze”. Come non smise mai di ribadire, con disarmante sicurezza, di essere diventata scrittrice per caso. O meglio, perché non aveva mai imparato un mestiere vero. Al tempo suo, del resto, l’unico mestiere previsto per una donna era quello di moglie e madre. Il fatto che lei sognasse di essere indipendente, e non volesse rendere conto a un uomo delle sue scelte era davvero “un sogno audace”. Ed è così che abbiamo intitolato il libro a lei dedicato per Morellini editore.


Alla fine con la scrittura Colette se la cavò bene, conquistando l’ammirazione di mostri sacri da Proust a Mauriac e Gide.


Lo provano una sessantina di romanzi, di cui una dozzina almeno trasformati in opere teatrali, e una monumentale corrispondenza contenente circa sette mila lettere. Del resto, come dicevo, cavarsela era la sua caratteristica più importante. Se la cavò anche quando si mise in mente di alternare la fatica di scrivere al rischio di vendere cosmetici naturali di sua creazione tramite una catena di boutique estetiche diffuse in tutta la Francia. Il sogno finì in disastro, ma lei imparò a scrivere slogan pubblicitari che vendette ad aziende floride dalle automobili Ford ai tabacchi Lucky Strike. E tornò a galla.

Colette, dunque, a oltranza.


Il nome suona come un colpo di pistola, o una scudisciata o un pugno in piena faccia. È facile da ricordare e ti rimane dentro, entrando nel mito senza fatica apparente. Del resto, entrò nel costume del Novecento il nome di Claudine, il personaggio che lanciò la sua carriera di scrittrice nel marzo 1900, al debutto del nuovo secolo. Anche lì per lì nessuno sospettò che dietro quello straordinario successo ci fosse proprio lei, Sidonie-Gabrielle, moglie timida e innamorata arrivata a Parigi dalla provincia, un po’ a disagio nei salotti della Ville Lumière.

In effetti la saga di Claudine apparve con la firma del suo primo marito nonché pigmalione Willy, al secolo Henry Gauthier-Villars, mente volpina dell’azienda culturale che faceva affari d’oro promovendo con bravura i libri di una nutrita squadra di negri pronti a offrire penna e ingegno al mercato.


In Italia Claudine arrivò solo nel 1906, ma anche da noi fu come una scossa elettrica.


Non si limitò a lanciare una moda: mostrò al mondo un modello di donna in fiore, una pioniera curiosa di sperimentare i segreti della vita. A partire dal sesso che le donne del suo tempo non osavano quasi nominare.

Ci vollero dieci anni, e un divorzio, prima che Colette arrivasse a imporre la sua firma sui libri che scriveva con tanto impegno, togliendo di mezzo quell’ingombrante Willy. Nel frattempo azzardò altre imprese ad alto rischio calcando i palcoscenici del vaudeville – un teatro popolare molto allusivo le cui attrici venivano considerate alla stregua di prostitute – anche in compagnia della sua prima amante ufficiale lesbo, la marchesa di Belboeuf detta Mitzi o Missi o anche zio Max. Seguirono il teatro più nobile, il cinema cui Colette prestò il suo ingegno come sceneggiatrice. E ancora l’inaffondabile si mise alla prova come talent scout, ricamatrice, cuoca, giardiniera e – soprattutto - collezionista di amori ed esperienze di vita dispensando consigli su giornali e riviste.

Dopo il disastroso matrimonio con Willy venne quello, non meno catastrofico, con il barone Henry de Jouvenel, giornalista e diplomatico che la inserì nella redazione del suo quotidiano Le Matin, provocando le ire del redattore capo che non voleva una donnaccia nel suo giornale. Com’era da prevedersi Jouvenel cominciò presto a tradirla e a umiliarla, offendendola in pubblico, ma lei agguantò da ultimo la sua parte di felicità grazie alle nozze con il mercante di perle Maurice Goudeket, discendente di una famiglia ebrea olandese.


Con il tempo Colette divenne sempre più forte, sempre più ansiosa di esperienze nuove.


Superati i cinquanta, mentre la maggior parte delle sue coetanee tirava i remi in barca, lei imparò a sciare e a guidare, divenne capo della pagina letteraria di Le Matin e scoprì talenti letterari come Simenon e teatrali come Audrey Hepburn. Nessuna remora, nessun tabù poteva fermarla. Nemmeno l’alone dell’incesto che sfiorò amando l’adolescente Bertrand de Jouvenel, il molto trascurato primogenito del suo secondo marito, il barone Jouvenel.


Inaffondabile fino all’ultimo, perfino con i funerali.


Quando la Chiesa le negò una cerimonia religiosa effettivamente poco consona al suo stile di vita, intervenne lo Stato a darle una grandiosa sepoltura laica, la seconda dopo quella di Sarah Bernard, e i suoi lettori sfilarono per ore davanti al suo piccolo feretro, in raccolto silenzio. Il giusto omaggio alla donna che aveva guidato la sua vita sfidando il mondo intero per seguire la legge del cuore e che ai suoi ammiratori aveva raccomandato:

“Siate felici, è un modo per essere saggi”.

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