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Immagine del redattoreAnna di Cagno

DAVID FOSTER WALLACE. La vita non si mangia.




Adoro i discorsi tenuti da persone speciali in occasioni speciali, perché il discorso, per sua natura, nasce per essere Pop e quindi accessibile a tutti. 


Ce n’è uno che rileggo spesso e di cui parlo ogni volta che se ne presenta l’occasione. È il discorso tenuto da David Foster Wallace il 21 maggio del 2005 al Kenyon College, This is water.


Poche pagine che andrebbero appese ovunque: nei corridoi delle scuole, sui muri delle metropolitane, nelle sale d’attesa degli ospedali…


La primavera del 2005 è stata una stagione fortunata, per i laureandi americani.

Poco dopo DFW,  per la precisione il 12 giugno a Stanford, Steve Jobs tenne il suo, quello passato alla storia con l’hashtag tormentone dei primi anni del Duemila, e cioè Stay hungry, stay foolish.

Un cattivo maestro Steve, che ha fatto sentire dei fenomeni anche i più fessi della rete, ma un grande venditore e rivenditore del Sogno Americano, che forse con lui ha segnato la sua ultima tappa. Illustrando le tre cose più importanti della sua vita (essere stato abbandonato, essere stato licenziato dalla compagnia che aveva fondato, ed essere malato di cancro) ha ribadito la magia, e la malìa di quel sogno: trasformare una sfiga in un’opportunità, una cosa che capita solo in "the land of opportunities".  


E lui, l’ex hippie che viveva in una comune e si faceva di acidi è diventato il guru di un nuovo capitalismo, spietato tanto quanto, ma touch, iconico, user friendly.

Slide, e ti trovi dall’altra parte del sistema.


Tre settimane prima, il fenomeno più pop e rock della letteratura contemporanea, lo scrittore così famoso da conquistare la copertina del Rolling Stone, l’uomo da un solo, titanico romanzo tiene un discorso in un luogo meno prestigioso di Standford, il Kenyon College, e non lancia un tormentone e non commuove casalinghe di Voghera 2.com. Soprattutto, non traduce in un bel claim (rubato tra l’altro, come molte delle cose di Jobs) il senso della vita, dello studio e del futuro che aspetta chi lo sta ascoltando.

Parla di acqua, pesci, cassiere del supermercato, carrelli della spesa che sbandano sempre, automobilisti incazzati, noia e piccole cose meschine da assolvere ogni giorno.

E di arroganza. E di libertà, la vera sfida.


Questa è l’acqua, la realtà in cui siamo così immersi da non farci caso, proprio come i due pesciolini che alla domanda: “Com’è l’acqua oggi?” Rispondono: “Che diavolo è l’acqua?”


Niente elogio della follia nelle sue parole (ne aveva un sacco e una sporta di suo), niente fame e bramosia di autoaffermazione di sé (si è suicidato a quarantatré anni, d’altronde), nessun sogno americano da rinverdire per questo nuovo millennio, zero epopea del suo stra-ordinario talento.


Un discorso che se lo leggi una volta sola pensi: ma che diavolo sta dicendo?


Ma se lo rileggi, e ti fermi, e scandisci bene le parole di alcuni passaggi, cadi in una sorta di magia, t’incanta e ti confonde al punto che se poi esci da casa per andare al supermercato, la vita, non la tua singola, microbica vita, ma quella con la V maiuscola, non ti appare più quello che hai pensato fino al momento prima. Non che ti appaia più bella o virtuosa, al contrario.


La vita non si mangia per DFW.

La vita si guarda, si osserva, e soprattutto si pensa.


E la cultura, o meglio l’education, termine che in inglese comprende sì il bagaglio di conoscenze necessarie per fare qualcosa di utile sulla Terra ma anche l’educazione e le buone maniere, serve a pensare. O meglio, a scegliere cosa pensare.

E la battaglia, la vera sfida non è tra winner e loser, credenti e atei, ricchi e poveri, laureati o non laureati, la vera sfida a cui tutti siamo chiamati è quella tra education e default setting.

Educazione e configurazione di base.


“Il problema non è la virtù. Il problema è scegliere di fare il lavoro di adattarsi o affrancarsi dalla configurazione di base, naturale e codificata in noi, che ci fa essere profondamente e letteralmente centrati su noi stessi, e ci fa vedere e interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé”.


Quelli che si adattano alla propria configurazione di base non a caso vengono definiti “ben adattati”, peccato che però difficilmente riescano a fare attenzione a qualcosa che non sia il proprio monologo interiore. 

Pensano, ma non scelgono cosa pensare. E quindi non sono liberi.

Ed ecco lo stacco, degno di una volé del suo amato Federer.


In un Paese che ha fatto della libertà un brand, talmente slabbrato da essere abbinato a quello delle armi e spesso all’invasione di stati sovrani, e della felicità un diritto costituzionale quasi che la si potesse riscattare, arriva questo ragazzone con la faccia un po’ tonta che ricorda più l’indiano di Qualcuno volò su nido del cuculo che un educatore a cui metteresti in mano tuo figlio, e ti scaravolta il modo di pensare.


“La libertà del tipo più importante richiede attenzione e consapevolezza e disciplina, e di essere veramente capaci di interessarsi ad altre persone e a sacrificarsi per loro più e più volte ogni giorno in una miriade di modi insignificanti e poco attraenti”.


Insignificanti e poco attraenti, perché non si tratta di fare opere buone o dimenticare il proprio io, ma di dressarlo, educarlo, affrancarlo dai condizionamenti che alla fine ci rendono tutti liberi di essere signori e padroni di un unico mondo, piccolo, e non sempre interessante, come il nostro cranio.

Pay attention.


Fai attenzione. 

A te, a cosa pensi, a cosa scegli di pensare quando un macchinone davanti a te tarda a partire al semaforo o quando la cassiera ti guarda con aria svogliata. Sono intralci al tuo percorso? Sono nemici della tua libertà di sfrecciare appena scatta di verde o di riempire velocemente i sacchetti della spesa? Fai attenzione anche agli altri, ai loro stati d’animo, ai loro sguardi, all’acqua, a ciò che a volte è così evidente da passare inosservato.


Stay aware.

Sii consapevole. Di te, degli altri, della miriade di cose meschine e noiose che ogni giorno sarai costretto a fare. Perché è qui, sostiene DFW, che interviene la possibilità di scegliere cosa pensare, la nostra unica irriducibile, forma di libertà. E di resistenza al mondo reale, che funziona molto meglio se tutti agiamo secondo la nostra configurazione di base, perché l’ha inventata lui, «il cosiddetto mondo reale degli uomini e del denaro e del potere».


“Questa è la vera libertà. Questo è essere istruiti e capire come si pensa. L’alternativa è l’incoscienza, la configurazione di base, la corsa al successo, il senso costante e lancinante di aver avuto, e perso, qualcosa d’infinito”.


Pay attention, stay aware. 

Non so a voi, ma a me piace molto di più, anche come hashtag.


Fonte immagine copertina: babelio.com


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