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Immagine del redattoreCaterina Balducci

Elisabeth II God save The Crown!

di Caterina Balducci


Troppo carattere è un eccesso di carattere. Dal serial The Crown

Non avremmo mai pensato, prima del serial-colossal di Netflix, che la regina Elisabetta II – icona vivente, già disponibile su mug e altri imperdibili ammennicoli – avesse vissuto una giovinezza, con le tempeste che comporta. Né, tantomeno, che avesse avuto un’emotività.

E in effetti The Crown ci accompagna attraverso la bildung di Sua Maestà, mostrandoci come l’esercizio più grande della sovrana sia stato respingere le emozioni, controllarle e trasformarle in autorevolezza e impassibilità.


L’investitura che la nomina governatrice suprema della Chiesa d’Inghilterra la colloca al di sopra della sua umanità. Nel nome di Dio, Elisabetta supera le sue umane pulsioni ed entra nell’olimpo reale.

Il suo Regno, proclamato il 6 febbraio 1952 e tutt’ora in corso, è il più lungo della storia britannica. Immortale, sembrerebbe quasi: come gli Dei. Della famiglia Windsor, anche in area latina e repubblicana – la nostra, siamo abituati a sapere tutto, spesso involontariamente. I tabloid inglesi si nutrono dei loro membri e dei loro scandali da sempre, con derive incontrollabili. Ma se della sofferta parabola di Lady D. conosciamo praticamente ogni dettaglio, così come – più recentemente – degli stilisti scelti da Kate Middleton, abbiamo sempre considerato Her Majesty fissa nei suoi completi color pastello ad Ascot, o nel suo ruolo istituzionale, o nella sua segreta (mica tanto) guerra contro Diana.


The Crown illumina zone nuove, non solo dei suoi tailleur.


Il titolo allude non tanto al simbolo quanto al peso della corona. È un peso di cui lo spettatore prende consapevolezza insieme alla protagonista: insopportabile e ineludibile. Un regno di oltre sessant’anni che corrisponde a un excursus storico emozionante. Dai primi, impacciati colloqui della regina giovane e inesperta con la statuaria e decadente figura di Churchill, al ricevimento a Buckingham Palace dei coniugi Kennedy: americanissimi, glamorous, travolti dalla loro notorietà e dalle loro fragilità. L’incontro tra Elisabetta e Jacqueline è quello tra due mondi, le due facce opposte dell’Impero.


Tradizione versus modernità, rigore contro fascino.


Elisabetta è turbata dall’irresistibile carisma della first lady; dalla sua cultura e dalla sua mondanità. Forse per un attimo addirittura la invidia. Prima di capire che Jacqueline è talmente umana con le sue debolezze, così in balia dell’ego del suo Presidente. No, la sovrana no. Deve rispondere a Dio e ai suoi sudditi: non c’è spazio per certi pensieri.

Altre due figure fondamentali nella sua vita sono magistralmente descritte in The Crown: il consorte Filippo e la sorella Margaret. Rappresentano entrambi quello che Elisabetta non può essere: volubile, irrequieta, controversa. Hanno tutti e due un rancore più o meno sopito nei suoi confronti per la sua colpa più grande: essere la sovrana. La loro condanna, qualunque azione svolgano, è di rimanere nell’ombra di Her Majesty. Sembra che lei li ami e li protegga molto più di quanto non facciano loro che si sentono in credito, eterno. Perché Elisabetta non si scompone neanche davanti all’evidenza dei tradimenti di Filippo o della vita dissoluta di Margaret. Perché la sua unica priorità è difendere la corona. Filippo e Margaret alzano l’asticella delle loro provocazioni: la insidiano, la portano sull’orlo del precipizio ma lei non inciampa.

Inaffondabile tra gli inaffondabili.

Da spettatori siamo stregati da questi due personaggi cruciali e marginali al tempo stesso.


In particolar modo è Filippo a sedurci anche quando abbassiamo lo sguardo.


È tormentato, e scopriamo di un’infanzia segnata da una madre internata e da una sorella fortemente collusa col nazismo, e di un’adolescenza trascorsa in un collegio all’insegna di bullismo e prove di resistenza.

Filippo è impaziente, insofferente, reazionario, fastidioso.

Eppure Elisabetta non cede. Ha firmato un patto con lui. Con lui e con Dio, naturalmente.

Margaret è bella e insicura. Principesca, molto più di Elisabetta. Non perdona alla sorella maggiore di averla preceduta nella stirpe ed essersi accaparrata il titolo di sovrana. In fondo da piccole giocavano insieme.


Dei tanti aspetti controversi che The Crown descrive, uno dei più affascinanti e inaspettati è il senso d’inferiorità culturale di Elisabetta.


L’educazione che la regina ha ricevuto è soprattutto incentrata sulla storia monarchica e sui protocolli. Del tutto inconsistente, se in agenda si ha un colloquio con Roosevelt. La regina cerca di rimediare alle sue lacune ingaggiando un istitutore: senza parlarne esplicitamente, i due capiscono che c’è tanto da imparare. Che l’istruzione reale è figlia di un’altra epoca e solo autoreferenziale. Elisabetta è frustrata e arrabbiata verso chi le ha negato una formazione completa ma non lo dà a vedere. Non potrebbe.

Forse The Crown è leggermente agiografico, ma nessuna narrazione (di certo nessun tabloid) era mai riuscito a descrivere così profondamente le luci e le ombre di un’investitura.

Siamo abituati all’icona Elisabetta, dimentichi della persona.


E qua e là scopriamo che nonostante il suo essere divina, trapela qualche umana debolezza. All’ennesima incrinatura coniugale, deve ricordare al marito e a sé stessa:

Sono la regina, ma sono anche una donna. E una moglie”.

Non sappiamo in quali dosi, però.


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