Essere o non essere Snaporaz?
Che poi tutti dicono “Ah Otto e mezzo, sì certo. Meraviglia, capolavoro...”
Ma poi gratta gratta…
C’è chi l’ha visto “tanto tempo fa” e chi sgrana gli occhi agitando una mano a mulinello perché non trova le parole. A spizzichi, a bocconi, a singoli frame tutti portiamo dentro un pezzetto di questo capolavoro.
Il cappellino di pelliccia della Milo, il vestito smangiato della Saraghina, gli occhi bistrati di Barbara Steele, le piume di Yvonne Bonbon, l’eleganza dimessa di Luisa\Anouk Aimée, lo splendore puro di Claudia (Cardinale), la ragazza della fonte, la tenerezza grottesca dei coniugi illusionisti, gli unici in grado di leggere i pensieri incomprensibili del protagonista… È l’immaginario felliniano. Quindi anche il nostro.
E poi c’è lui: Guido Anselmi, alias Snaporaz. Nickname che sta per “t-chi snà un puràz”, tu sei nato poveraccio. Che era come Fellini incitava Mastroianni a riprendere a lavorare.
Ma chi è Snaporaz?
Nel film è un regista famoso in crisi creativa, ostaggio dei suoi sogni, del suo infantilismo e dell’industria cinematografica che, come la moglie, l’amante, gli attori, gli amici gli chiedono ciò che lui non può dare. E cioè? L’affidabilità.
Perché è incostante, umorale, infedele, bizzoso, a tratti lagnoso e a tratti dispotico.
“Un bugiardaccio senza più estro né talento”, come si autodefinisce all’inizio del film.
Eppure, è lui l’unico sincero, in quell’infinito e surreale panorama umano che Fellini, co-sceneggiatore insieme a Ennio Flaiano, ci regala.
Il bugiardo più autentico, il solo che si pone domande su sé stesso quando invece tutti – la moglie, l’amante, l’intellettuale grillo parlante, il produttore – sanno cosa vogliono o comunque vogliono qualcosa, anche se non sanno perché.
Snaporaz invece non lo sa.
L’unica certezza di cui dispone è che non vuole venire a patti con la vita, vuole trovare il modo – perché deve esistere un modo – per conciliare sogni e realtà, per non perdere quello sguardo incantato sul mondo che da bambino gli faceva fare una riverenza al cospetto della folle e sciatta Saraghina.
Vorrebbe essere felice, il “puràz”, vorrebbe “poter dire la verità senza far soffrire mai nessuno”, ma sa che è impossibile, perché nessuno ha bisogno della verità.
Tutti però abbiamo bisogno di sogni, e di qualcuno che li sogni anche per noi.
Così, quando ormai è deciso che il film non si farà, e il critico dalla erre arrotata che lo tormenta dal principio è filosoficamente soddisfatto, perché “se non si può avere il tutto, allora il nulla è la vera perfezione”, l’illusionista arriva e annuncia: “Siamo pronti per cominciare”.
E Otto e mezzo ci regala il monologo più bello della storia del cinema:
“Ma tutta questa confusione sono io, io come sono non come vorrei essere. E non mi fa più paura dire la verità, quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo… È una festa la vita...”
PS Per fare bella figura a cena: il titolo Otto e mezzo non significa nulla, si riferisce solo al numero di film girati da Fellini fino al 1963. Sette con l’aggiunta di una co-regia con Lattuada per Luci del varietà, che con questo fanno appunto otto e mezzo. Flaiano gli propose La dolce confusione, citazione voluta della precedente Dolce Vita. A Fellini non piacque. E neanche a noi.
Fonte immagine copertina: actionstartindreams.wordpress.com
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