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Immagine del redattoreAnna di Cagno

Jeff Koons: il Michelangelo “cozzalo”




Non ho mai capito se Jeff Koons fosse un “cozzalo” o un grande artista fino a quando, un’estate di tanti anni fa, al Guggenheim di Bilbao, non ho visto dal vero Michael Jackson and Bubbles.

Sì, di fronte alla più kitsch delle opere della serie Banality ho pensato: è un genio.

Ammetto: a prima vista fa un po’ schifo, molto più belli i cagnoloni dei Baloon Dog, i tulipani e i cuoricioni di acciaio lucidato, eppure…

Se ci fermiamo un attimo, se scolliniamo quel rigetto immediato di fronte ai riccioli dorati di Jacko e guardiamo negli occhi Bubbles, ci si apre qualcosa di nuovo e potente.


Non si sono mai incontrati Jeff Koons e Michael Jackson.


Lui gli ha chiesto una foto, l’altro - presumibilmente qualcuno del suo staff - gliel’ha mandata, e così è nata questa scultura, o meglio, tre sculture (una è esposta a Los Angeles, una a San Francisco, una a Oslo).


Ora, non credo di essere l’unica a non essere mai riuscita a immaginare Michael Jackson vecchio. Keith Richard aveva più rughe di mia nonna già a ventisette anni, Bob Dylan probabilmente è nato anziano così come Johnny Cash, ma Jacko no.


Jacko era la gioventù, la leggerezza, la grazia.


Impossibile pensarlo goffo e appesantito dagli anni così come impossibile immaginarlo maschio, femmina, sessualmente attivo, nonostante gli scandali. Micheal Jackson era e resterà per sempre l’unico essere al mondo che poteva stringersi le palle con una mano e non sembrare un buzzurro, fare la vocina e non risultare grottesco, truccarsi e non sembrare un travestito.


Né uomo né donna, né etero né gay…


Un angelo di una nuova iconografia, quella inventata dalla cultura Pop. Kitsch e sublime.

E Jeff Koons l’aveva capito.


Ma guardiamola meglio: the King of Pop è vestito color oro, come lo scimpanzé che adottò nel 1985, è seduto per terra su un letto di fiori e cinge la bestiolina con il braccio destro; la mano bianchissima, l’incarnato bianchissimo, una lunga striscia di eyeliner nera sugli occhi, molto Liz Taylor, le labbra rosse e dischiuse, molto Diana Ross.


Anche Bubbles è truccato e insieme sono un’unica entità, una cosa sola. Eppure, i loro sguardi non s’incrociano e a ben guardare non sono neanche rivolti nella stessa direzione.


Gli occhi dello scimpanzé sono attraversati da una leggera inquietudine, quelli di Michael sono seduttivi, ma rassegnati.

Sembrano dire: “Lo so cosa vi aspettate da me, tranquilli, lo avrete”.

Bubbles, quello vero, metteva tristezza: una scimmia vestita da pop star che mangiava a tavola, viveva in tournée e posava per servizi fotografici con il suo padrone. Che a sua volta era stato un bambino trattato come una scimmia da un circo e da un padre terribile, e da un’industria spietata.

Anche Michael, quello vero, metteva un po’ tristezza, perché era come se tutta quell’energia, quella gioia di vivere e quel ritmo irresistibile che solo lui sapeva comunicare non gli appartenesse. Come se fosse altro da lui e lui fosse solo un mezzo per far arrivare qualcosa a ognuno di noi.


Lo stesso sottofondo di malinconia s’intercetta sempre nel volto della Vergine Maria, deve aver pensato Jeff Koons. Che ha detto di essersi ispirato alla Pietà di Michelangelo, per la struttura triangolare della scultura, ma che sicuramente ha trovato nella successiva Madonna di Bruges l’icona di quello che lui ha declinato in salsa Pop.

Anche lei come Jacko non guarda la sua creatura (fu questa la novità che Michelangelo introdusse), e anche lei lo trattiene a sé con una mano; ma mentre il Bambino sembra quasi scivolarle via lungo la veste, e la tristezza di Maria è quella di una madre che sa a cos’è destinato suo figlio, Bubbles resta incastrato le gambe del suo padre/padrone, perché Michael sa che non c’è destino per lui, men che meno resurrezione, c’è solo show-business.

Ma poi arriva Jeff Koons e ci restituisce tutto il dolore di un sacrificio che, a suo modo, è servito a farci sentire tutti un po’ più liberi.


Fonte immagine copertina: www.sfmoma.org


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