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Jo & Edward Hopper: è questo l’amore?

di Annalisa Bruni


Josephine Verstille Nivison nasce a Manhattan nel 1883 da una famiglia anticonvenzionale (la madre è uno spirito libero, il padre un musicista) e trascorre un’infanzia felice. Conseguito il diploma da maestra, decide però di dedicarsi all’arte e si iscrive alla New York School of Art con l’intenzione di diventare una pittrice.

Già nel 1914 i suoi dipinti vengono esposti in una mostra collettiva che raccoglie opere di Man Ray, tra gli altri, e nel 1922 la sua fama è cresciuta al punto da permetterle di esporre assieme a nomi quali Modigliani, Picasso e Magritte.


Come mai, allora, non conosciamo questa pittrice? Come mai nei musei non troviamo i suoi dipinti?


La risposta è una sola: perché proprio mentre stava per spiccare il volo, Josephine, nell’estate del 1923 conosce Edward Hopper. Lei è una donna già matura, ha 40 anni, lui ha un anno di più.

I due artisti diventano amici inseparabili, lavorano fianco a fianco. Edward è già piuttosto noto come illustratore, ma, proprio dietro consiglio di Jo (così la chiamerà sempre), inizia a lavorare con l’acquerello. È sempre lei a suggerire agli organizzatori di una mostra al Brooklyn Museum di invitare anche lui ad esporre. Le sue opere piacciono e il museo ne compra una: erano ben dieci anni che non vendeva nulla. Questo successo finalmente permette a Hopper di considerarsi un vero artista. Nell’estate del 1924 Edward e Jo si sposano.


Considerati i due caratteri del tutto opposti - lui taciturno, solitario e malinconico, lei vivace emancipata e libera, lui ama il silenzio e la natura, lei la città e la compagnia - si sarebbe potuta prevedere, per questa unione, una breve durata.


Invece, nonostante forti e continui conflitti, la coppia resiste fino alla morte di Hopper, avvenuta nel 1968. Jo diventa la sua musa, la sua sostenitrice più convinta, posa per lui, unica e insostituibile modella dei quadri che tutti conosciamo e amiamo, e allo stesso tempo, però, abbandona pennelli e colori per dedicarsi solo a lui.

Con il matrimonio, dunque, la passione di Jo per la pittura viene progressivamente messa da parte, la sua vita cambia al punto da farle dimenticare il suo talento a favore di quello del marito, che non fa nulla per incoraggiarla a continuare a dipingere. Edward non solo sottovaluta le esigenze e le ambizioni di Jo, disprezzando le sue doti, ma arriva adddirittura a ostacolarne la carriera.


Geloso, depresso, insicuro, irascibile, ossessionato dalla riservatezza sulla sua vita privata, a poco a poco la isola dagli amici e dai conoscenti.


Un sodalizio dunque diverso da ciò che poteva apparire, quello degli Hopper, a giudicare dalla struggente tela Due commedianti, nella quale il pittore si ritrae sulla ribalta di un teatro, con la moglie, in abiti di scena, nell’atto di salutare il pubblico durante gli applausi finali. Di una commedia, la commedia della loro vita, si tratta o di una tragedia? Se dobbiamo credere a quanto emerge dalla lettura del libro di Gail Levin, Edward Hopper. Biografia intima (Johan &Levi, 2009) che ha utilizzato stralci del diario di Jo, la sua vita è stata segnata da grandi rinunce: in primis quella a una carriera artistica che si annunciava promettente, ma non solo. Gli Hopper non ebbero figli perché, e sono parole di Jo, “sarebbe stato orribile se ne avessimo avuti”.


Edward era geloso perfino del suo gatto, non tollerava le attenzioni che gli riservava Jo.


Dopo venticinque anni di un matrimonio tanto tormentato lei scrisse al marito: “meritiamo la croix de guerre, una medaglia per esserci distinti nella battaglia”; clamorose e violente le loro liti, che avvenivano anche in pubblico o perfino in mezzo alla strada, spesso perché Edward non le permettava di guidare l‘automobile.


Naturalmente non si può, e non si deve, giudicare una relazione tra coniugi di cui ignoriamo le dinamiche profonde e gli equilibri che comunque si vengono a creare e non possiamo liquidare esclusivamente come vittima una donna colta ed emancipata come Jo senza conoscere le motivazioni che l’hanno portata ad accettare tutto questo. Vero è, però, che molte donne come lei si sono trovate a vivere situazioni simili, penso ad esempio ad Anna Banti, che ha rinunciato ad una brillante carriera come critica d’arte non sentendosi all’altezza del marito, il grande Roberto Longhi, o forse temendo di oscurarlo, chissà, e ha preferito dedicarsi alla scrittura.


Perché queste donne non si sono ribellate, perché hanno accettato di rimanere in ombra, per non offuscare l’uomo che amavano, oppure per sostenerlo e incoraggiarlo favorendone il successo?

Può l’amore portare a questo? Ma soprattutto: questo è amore?

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