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Karl Marx il simpatico borghesuccio

di Carlo Alberto Brioschi


«Spero che la borghesia per tutta la sua vita penserà ai miei foruncoli». Karl Marx espresse l’auspicio in un momento di sfogo, non solo cutaneo. Una debolezza che varrebbe la pena di omettere se non ci dicesse molto dell’uomo nascosto dietro al pensatore. E il primo ci dice molto sul secondo se è vero che si sentiva “tutto fuorché marxista” e che considerava la sua stessa opera tutt’altro che compiuta.


L’autore del Manifesto, del resto, prima di scagliarsi contro i suoi avversari, proponeva un autentico “elogio della borghesia” mettendone in mostra i meriti storici e le ragioni del successo.


Solo un indizio che aiuta però a completare il quadro ricordando le più sane contraddizioni del profeta comunista, o del Machiavelli del proletariato come lo definiva Benedetto Croce.

Il fatto è che l’oscuro ebreo di Treviri divenuto l’uomo più influente sul pianeta dopo Gesù Cristo, dopo i requiem suonati da ogni parte, è tornato a essere un pensatore à la page, un guru affascinante che aveva previsto tutto e che ha ancora molto da insegnarci in fatto di “corruzione politica, tendenze monopolistiche, alienazione, diseguaglianze e mercati globali” (copyright: The New Yorker). Ecco perché tornare a leggere Marx, ben più che i “marxisti rococò” del Ventesimo secolo (come li ha definiti con sprezzo Tom Wolfe), può rivelarsi interessante, così come è fondamentale ricordare che il marxismo fu il frutto del golpe di Friedrich Engels, che si assunse il compito di custodire, ordinare gli archivi del più celebre collega e diffonderne alcune opere a scapito di altre. Insomma, se è vero che l’uxoricida Louis Althusser, massimo divulgatore e studioso francese di Marx, non aveva mai - per sua stessa ammissione - letto per intero Il Capitale, allora forse non sono molti nemmeno coloro che hanno conosciuto il vero umorale borghese di Treviri; assai meno, comunque, di quelli che hanno frequentato prevalentemente il suo sosia corrusco, con tutti i tratti del noioso maître à penser e del dogmatico predicatore politico.


È venuto il momento allora di riscoprire, con la necessaria e impudente ironia del caso, il sosia dimenticato di Marx, un uomo ricco di contraddizioni, ironico, romantico e dotto, che passò gli ultimi anni della sua vita nel silenzio delle sale di lettura della British Library.


Il divoratore di libri e indefesso lettore di Shakespeare, Dickens, Thackeray, Molière, Racine, Voltaire e Goethe, che si rilassava leggendo Tucidide e i classici greci e latini quando era stanco di economia; lo stesso esponente della middle class anglosassone che visse gran parte della sua esistenza tirando a campare (tra malanni continui, scarso denaro, e disgrazie familiari), ma che un giornalista americano intervistò nel 1871 in un elegante appartamento londinese arredato con gusto tra vasi di rose e vedute del Reno, descrivendolo, con felice gusto per la contraddizione, come un prosperoso stockbroker all’inizio della sua fortuna (sarà che la madre gli ripeteva sempre di “fare capitale”, anziché di scriverne soltanto). Appartamento elegante e ordinato? Non si direbbe dalle descrizioni dell’epoca.


Certo Marx non badava molto all’apparenza.


«Conduce una vera esistenza da zingaro. Lavarsi, pettinarsi, cambiare la biancheria sono per lui delle rarità; alza volentieri il gomito. In Mio marito, Karl Marx Indro Montanelli ne ha fatto un ritratto al vetriolo, facendo parlare direttamente Jenny von Westphalen, l’erede di nobile famiglia prussiana che ebbe la ventura di sposare il rampollo spiantato di una famiglia di mercanti ebrei, velleitario economista con poche nozioni di economia, guadagnandoci anzitutto una vita di stenti, tra un fiasco editoriale e una mancata consegna, uno sfratto e un esilio. «Concederai che tutta questa merda è discretamente gradevole», scriveva in una “vera” lettera alla madre, «e che io sto immerso fino alla cima dei capelli nello schifo piccolo-borghese. Ma infine, per dare alla vicenda una punta tragicomica, ci si aggiunge anche un mystère, che ora ti svelerò in pochissime parole…». Si trattava probabilmente del borghesissimo e noto inghippo della cameriera messa incinta dal filosofo.

Benché egli stesso avesse tra l’altro una grande e spesso necessaria predilezione per pseudonimi d’ogni genere (“Monsieur Ramboz”, quand’era a Parigi, “A. Williams” nom de plume durante il suo soggiorno londinese. E ancora “Old Nick”, “Charley” o “il Moro”), la storia ha spesso trascurato il saggio e simpatico doppio di Marx, che ci ha invece lasciato in eredità aforismi, profezie e suggestioni spesso del tutto lontane da quelle che per oltre un secolo si sono studiate, tramandate e infine ritrattate con più o meno zelo. Era lo stesso uomo che non nascondeva di diffidare di economisti e filosofi e che il celebre critico letterario americano Edmund Wilson ebbe a definire come «il più grande ironista del mondo dopo Swift».

Insomma, un esemplare esponente della “booboisie”, come la definiva H.L. Mencken; un piccolo borghese vittoriano nei panni di un rivoluzionario (o viceversa, se si preferisce), sposo di una principessa e amante dei piaceri e della vanità della vita, abituato a convivere con il proprio alter ego di austero philosophe.


Un uomo la cui straordinaria attualità risiede nel metodo di analisi, perlopiù sopravvissuto ai suoi contenuti, e nella dedizione a temi quali la dialettica tra progresso e catastrofe che riguarda le presenti generazioni, almeno quanto quelle otto-novecentesche, ma anche e soprattutto nell’ambiguità del pensiero e degli scritti (quelli giovanili e della maturità), nella perfetta convivenza dell’utopia socialista e dell'amore per il quieto vivere, della teorizzazione del riscatto del proletariato e del solido ancoraggio ai principi della vita borghese, degli slanci rivoluzionari e dell’ammissione della loro precaria velleità. Un Marx tirato per le mutande, ancor più che per la giacca, si obietterà, eppure quel Marx è esistito, anche se alla storia ne è passato un altro e occorre scavare solo un poco per portare alla luce il suo sosia.


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