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Pinocchio: capolavoro dell’umanità

di Nicoletta Bertorelli


“Del resto, dovete sapere che quando i pesci ebbero finito di mangiarmi tutta quella buccia asinina che mi copriva dalla testa ai piedi, arrivarono, com’è naturale, all’osso… o per dir meglio, arrivarono al legno: perché come vedete io sono tutto di legno durissimo. Ma dopo dati i primi morsi, quei pesci si accorsero subito che il legno non era ciccia per i loro denti e, nauseati da questo cibo indigesto, se ne andarono chi in qua chi in là, senza voltarsi nemmeno a dirmi grazie. Ed eccovi raccontato come qualmente voi, tirando su la fune, avete trovato un burattino vivo invece d’un ciuchino morto”.


Pinocchio, imprevisto tecnologico, scatola cinese di corpi falsi, simulacro parodistico-alchemico mai troppo umano, è inaffondabile per definizione: perché è di legno, e perché è un classico.

Limitato e svelato dal corpo snodabile che lo tradisce, da quel puntuto naso delatore, da quei piedi capaci di “un fracasso come venti paia di zoccoli da contadini”, lo scolaro di legno (ignaro prototipo del temutissimo B.E.S., incubo di ogni educatore, affetto da deficit di attenzione, iperattività e disturbo oppositivo-provocatorio tutti insieme), armato solo dei propri difetti e del non esser carne umana, ma cocciuta materia vegetale, è parente di tutte le maschere e le marionette del mondo ma, a differenza delle altre maschere, è pure dotato della capacità di evolvere e mutare fino alla dissoluzione di se stesso, nella surreale abnegazione autolesionista che alla fine lo ucciderà davvero : “… Da quel giorno in poi continuò più di cinque mesi a levarsi ogni mattina prima dell’alba, per andare a girare il bindolo e guadagnare così quel bicchiere di latte che faceva tanto bene alla salute cagionosa del babbo….”; nell’ultimo capitolo, quando la pedagogia avrà finito il suo sporco lavoro su di lui, con delusione di tutti i lettori, l’irriducibile si trasformerà in un anacronistico, stucchevole “ragazzino per bene” che nessuno vorrebbe conoscere, mentre il vero eroe sarà esposto al pubblico ludibrio, inanimato e spento, accasciato su una sedia come un giocattolo rotto (“Com’ero buffo, quand’ero un burattino!” dichiara spietato il banale sconosciuto, lasciando i “piccoli lettori” con un palmo di naso). Potenza dell’odio di un autore per la creatura che gli ha dato da mangiare.


Dall’inorganico al putrescibile, avrebbe detto Carmelo Bene, che non a caso dialogò tutta la vita (dal 1962 al 1998) a varie riprese col testo collodiano, innamorato del suo linguaggio prodigioso, della sua capacità di sovvertire la sintassi, del suo contenuto perfettamente antinaturalistico e amorale, sempre de-pensando se stesso e il “distratto autore” del capolavoro involontario, come autentici “classici”, fuori dal tempo e dalla storia dell’arte borghese.

Questa piccola storia locale infatti, questa “bambinata” minore e occasionale, scritta quasi in dialetto, a puntate, su un giornaletto di provincia, da un Lorenzini in cronica crisi alimentare, e concepita per finire presto (lo testimoniano i vari tentavi di far morire Pinocchio di puntata in puntata, sempre resuscitandolo a furor di popolo), raggiunge la dimensione del “classico” malgrado le intenzioni stesse dell’autore, e non perde la presa anche tradotta in più di 250 lingue, o persino stravolta e immiserita dalla sciropposa versione di Disney.


Con la stessa imprevedibilità del suo protagonista, l’opera presto sfugge di mano al suo autore, e comincia a vivere di vita propria.


(“Birba di un figliolo, non sei ancora finito di fare e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!”).

In seguito alla sentenza di Benedetto Croce del 1903, che alla favola locale per primo riconobbe aspetti universali, consacrandola definitivamente capolavoro letterario e patrimonio dell’umanità, a partire dagli anni ’20 del secolo scorso fiorisce inarrestabile la critica letteraria e ha inizio la sterminata esegesi collodiana.

“Una Bibbia del cuore” lo definì Alberto Savinio in Collodi, mentre da Tabucchi a Moravia, Malerba, Pancrazi (1921, Elogio di Pinocchio), Cassola, Santucci, Bargellini, Garroni, Manganelli, Citati, Fruttero, Cerami, De Rienzo, Eco, Piero Dorfles, Spinazzola, praticamente tutti gli intellettuali italiani hanno dovuto, prima o poi, dedicare al monello di legno almeno un articolo o un saggio critico.


Dell’immensa fortuna critica di Pinocchio si fa divertito testimone anche Italo Calvino (“Ma Collodi non esiste” La Repubblica 19-20 aprile 1981) il quale, nel ricollegare Pinocchio alla tradizione picaresca, vi osserva la prevalenza del personaggio sull’autore e, citando gli atti del convegno Simbologia di Pinocchio (Emme edizioni) ironizza con leggerezza sulla varietà delle letture allegoriche: da Jacqueline Risset (Pinocchio e Dante), a Élemire Zolla (La Fatina dai Capelli Turchini e Iside), passando per l’ Ecce Puer di Gianluca Pierotti, al Giorgio Manganelli di Pinocchio, un libro parallelo (Einaudi 1977) per culminare nelle audaci ermeneutiche esoteriche di Francisco Garcia Bazàn (Pinocchio e il Neoplatonismo) e Grazia Marchianò (Pinocchio e il Tantrismo), senza dimenticare la messe di letture psicoanalitiche, fra le quali si trovano spesso citate quella di Salomon Resnik e quella di Antonio Grassi.


Recentemente, leggendo il grande romanzo giapponese di formazione Musashi di Eiji Yoshikawa, mi è capitato di ravvisare inconfondibili tratti “pinocchieschi” nel personaggio di Matahachi, alter ego negativo dell’eroe principale, mentitore seriale, vittima di se stesso, continuamente ripescato dalla mamma e dallo zio e sempre sul punto di ravvedersi, pronto a mille progetti grandiosi di riscatto personale e sociale, ma destinato al fallimento. Afflitto da complesso di inferiorità, manie di grandezza, irrealismo, senso di onnipotenza, incapace di portare a termini i propri ambiziosi progetti, carente di buonsenso, incapace di accettare le frustrazioni… persino il mitomane, irriflessivo Matahachi è un Pinocchio “serio”, travestito nei panni di un antico samurai.


La sovrabbondanza di interpretazioni si contrappone progressivamente all’immediatezza di rapporto con il personaggio, divenuto, nelle parole di Renato Bertacchini, “stupendo ideogramma occidentale” e ormai quasi alienato alla semplice fruizione infantile.

“Pinocchio - osserva Giovanni Jervis nella Prefazione all’edizione NUE del 1968 - ci è stato rubato e ci è stato imposto. Lo consideriamo ormai con diffidenza: su di lui è stato scritto tutto, e se rileggerlo può essere ancora una scoperta, ci rimane il sospetto che sia impossibile recuperare una freschezza nella rilettura”.

Considero inesistente questo rischio, per il semplice fatto che la lettura di Pinocchio non smetterà mai di stregare, “a cagione” (direbbe Collodi) della sua musicalità.

Per confermarlo, torno con la memoria alla me stessa bambina che sfogliava le pagine del prezioso volume illustrato da Jacovitti, di proprietà dei miei avi, e che ne imparò compulsivamente a memoria diversi capitoli.


Ricordo l’estraneità, l’impossibilità di identificarmi in quel personaggio troppo ingenuo, troppo bugiardo, troppo “legnoso” per somigliare a qualunque bambino reale.


Ricordo anche l’amarezza eccessiva, la pomposa monotonia dei vari moralizzatori, Grillo Parlante in testa, così arcigni da rendere amara e indigesta la morale sottesa a quella lettura. La sadica lentezza della Lumaca, la disonestà delle autorità costituite (il Giudice Scimmione che mette in carcere gli innocenti e libera i malandrini) la paura costante della morte, l’inganno del Campo dei Miracoli, in cui sarei cascata volentieri anch’io, il gusto amaro della medicina (“Io non la beverò mai!”), il passaggio incongruente ma consolatorio dalla morte per impiccagione alla malattia, e soprattutto la vita sempre possibile, anche dentro il corpo mastodontico del Pesce Cane che tutto inghiotte. Ma ricordo soprattutto le locuzioni dialettali, le ricostruzioni sghembe, i “per l’appunto”, i “prova ne sia”, i “fatto sta”, quel magico “avvezzarsi” e le mille altre trovate che ne hanno fatto, e sempre ne faranno, melodia indistruttibile, inconfondibile voce d’artista, classico inaffondabile della letteratura di tutti i tempi.

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