Stendhal non solo sindrome
di Sergio Roic
Henri Beyle, alias Stendhal, è colui che ci ha regalato due fra i più bei romanzi dell’Ottocento letterario. Francese e grande ammiratore dell’Italia, aveva una predilezione tutta sua per Milano, che amava e riteneva la città giusta per sé.
Nacque nel 1783 a Grenoble e morì, dopo un infarto, a Parigi nel 1842. I sessant’anni della vita di Stendhal segnano, non a caso, una frattura e un’accelerazione nella storia dell’Europa con la Francia al centro degli eventi: anche dopo la sconfitta delle idee rivoluzionarie, la restaurazione susseguente non sarà in grado di arginare del tutto gli ideali repubblicani e quelli romantici che, nel giro di qualche decennio, si impadroniranno definitivamente del continente.
Stendhal fu legato a Napoleone, che ammirava, ma nel 1830 divenne console francese in Italia, al servizio di una politica monarchica di stampo liberale.
Abilissimo conversatore, salottiero, innamorato – soprattutto sfortunatamente – di alcune donne, Stendhal dette il meglio di sé in due campi distinti, anche se contigui: la scrittura e l’ammirazione per l’arte.
Nel 1830 scrisse Il rosso e il nero, uno dei romanzi che segnano l’Ottocento. L’ascesa e la caduta di Julien Sorel sono paradigmatiche e figlie di un’epoca in cui si poteva tentare tutto, ma anche fallire amaramente. Romanzo psicologico fra i più acuti, Il rosso e il nero affermò definitivamente Stendhal nel mondo delle lettere, dei salotti e della politica.
Ma è nel 1839, con La Certosa di Parma, la sua opera più bella e per certi versi immortale, che Beyle-Stendhal dà la sua impronta alla letteratura francese.
La “Certosa”, scritta a quanto pare in soli 52 giorni di “volontaria reclusione”, va letta in momenti diversi della propria vita, e almeno due o tre volte per cogliere tutta la ricchezza del gioco di passioni e di limitazioni sociali che le fanno deflagrare. La storia di Fabrizio Del Dongo e Clelia Conti, che lessi per la prima volta nella tarda adolescenza, contiene indimenticabili momenti di quelle andate-e-ritorni sentimentali che caratterizzano la commedia umana. A diciassette anni Fabrizio fugge dalla casa avita nel Comasco per addirittura presentarsi sul campo di battaglia di Waterloo, emblema di tutte le battaglie del tempo. Lo stesso Stendhal si arruolò, a diciassette anni, nel reparto dei dragoni napoleonici. L’amore inestinguibile di Fabrizio per Clelia, figlia del suo carceriere al tempo della sua reclusione presso la Certosa di Parma, è fra le storie romantiche più riuscite e contrastate della letteratura di tutti i tempi.
Lessi il libro, quella prima volta, in un’edizione serbocroata in cui Fabrizio diventava Fabris (accento sulla a): la mutata sonorità del nome ebbe, per me, il potere di rappresentare il personaggio in modo diverso rispetto al Fabrizio-Fabrice che incontrai in seguito. Cose da ragazzi, verrebbe da dire, sennonché, a differenza di altre opere giustamente ritenute grandi e importanti, La Certosa di Parma è quasi prodigiosamente sprovvista d’età: oggi e qui la si legge e rilegge come una storia del tutto moderna e a noi contemporanea.
Ma il romantico e moderno Stendhal non finisce qui: grande cultore dell’arte e delle “atmosfere d’arte” così tipiche dell’Italia, il nostro scrittore ha dato anche il nome a una sindrome, la sindrome di Stendhal, per l’appunto, descritta in un interessante saggio del 1977 – La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte – dalla psichiatra fiorentina Graziella Magherini. La sindrome si presenta come una malattia psicosomatica che ingenera debolezza fisica, mancamenti, vertigini et similia quasi che si trattasse di un’acuta crisi d’amore. La Magherini ne dà conto ripercorrendo i casi di parecchi turisti recatisi ad esempio a Firenze e ammalatisi di “troppa arte”.
La sindrome fu “teorizzata” per la prima volta da Stendhal che in un resoconto di un suo viaggio in Italia ne parlò in questi termini:
“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”.
Questa speciale sindrome ispirò anche il regista Dario Argento che nel 1996 si cimentò con il riuscito angoscioso thriller psicologico omonimo che vede nel ruolo di protagonista la figlia Asia.
Ma come si può definire una sindrome, ovvero una malattia, del genere una volta che abbiamo confessato e ribadito il suo legame indissolubile col mondo dell’arte figurativa? È davvero possibile che ci si possa ammalare (d’amore) per delle opere, seppur grandi, che comunque conosciamo e riconosciamo essere delle rappresentazioni?
La risposta a questa domanda, e pure, forse, la risposta ad alcuni dei temi con cui si è cimentato Stendhal durante la sua vita di scrittore, può essere data dalla neuroestetica, ovvero la nuova branca del pensiero che descrive il cervello umano come un’entità non semplicemente visuale ma sempre e comunque creativa. Detto in parole povere, noi non “vediamo” ma “ricreiamo” ogni volta la realtà che ci circonda. Nel caso delle opere d’arte, quindi, un’intensa fruizione ci porta, a volte, a ri-creare (creare di nuovo) alcuni dei più alti raggiungimenti della tecnica-emotività umana a nostro esclusivo uso e consumo, come se ricreassimo da zero, ex novo.
L’operazione, naturalmente, ci spossa e prosciuga.
Una risposta ancora più diretta l’ho trovata in un libro di fantascienza-fantaecologia, Anno luce zero – ritorno sulla Terradelle sorelle Mercedes e Paola Bresso. A un certo punto il romanzo, in una trama che prevede la catastrofe ambientale imminente, apre anche a un incontro con una civiltà aliena senziente. L’incontro con gli esseri di questa civiltà post-corporale è brillantemente risolto dagli alieni che si presentano all’umanità sotto le sembianze di personaggi tratti direttamente dalle nostre grandi raffigurazioni rinascimentali.
La domanda che mi pongo è, comunque, questa: come avrebbe reagito Stendhal, come si sarebbe comportato lo scrittore francese, una volta resosi conto che la Venere del Botticelli non era solo un’imponente figura dipinta sulla tela, ma una donna in carne e ossa che, uscendo dal quadro, gli aveva teso la mano?
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